Fatto salvo il proposito di restituire le atmosfere di Marker, il suo anomalo cinema per fotogrammi, l’incipit è molto promettente rispetto allo sviluppo che si rende spesso statico sia nella forma, sia nell'espressione, ma a ragion veduta: il film descrive un luogo, un mondo, dove non esistono più gli uomini. Un mondo che non attende altro che la sua fine, la fine dell’umanità, mentre la natura continua il suo corso indifferente, maestosa e lontana. Un lavoro pieno all’inverosimile di elementi analogici e digitali anche sul piano storico, infatti, il futuro anteriore delle architetture sovietiche abbandonate, che negli anni Settanta simboleggiavano le sorti progressive delle conquiste del socialismo, vengono intese come portali spazio-temporali verso altre dimensioni. Esse stesse sono strutture utopiche e severe come macchine dal funzionamento occulto. Qui è la estrema cura che il regista pone nella fotografia a rendere omaggio ad una illusione, una speranza di futuro. Un drammatico contrasto di chiari e scuri, metafora della tensione interiore del protagonista, della sua ansia di sopravvivere, che si espande e riflette nelle architetture fatiscenti. Veri portali verso la salvezza, nel tentativo di fuggire dall’entità transumana Oort, altra metafora che sta per cultura woke, incluso un futuro di privazioni delle libertà, delle proprietà, del cibo, in una parola di una vita degna di essere vissuta, minacciata di estinzione, depauperata fin nelle sue forme più basilari. Oort è l’estinzione stessa del genere umano per privazione di ogni elemento vitale.
A questo primo livello argomentativo possiamo aggiungerne un secondo, ovvero, la netta sensazione di trovarci all’interno di un gioco di ruolo e di osservarne il filmato introduttivo prima di iniziare il gioco che ci porterà all’incontro definitivo con la Dea Madre. Abbiamo infiniti esempi di games che illustrano scenari distopici, post-atomici, o post-apocalittici. Oort vuole sostituirsi alla carne affranta del protagonista, lo insegue di portale in portale, ma alla fine, misteriosamente, lo lascia andare, anzi, fugge. Perché? Cosa ha percepito in quell’individuo ridotto ormai ai minimi termini? Chi è in realtà la divinità o l’entità benigna della Madre? Oort la teme e riconoscendola in spirito nello sciatto biancore dell’indumento plastificato del protagonista, decide di lasciarlo andare. L’iconografia della Madre riconduce a certe madonne di Piero della Francesca in particolar modo la Madonna della Misericordia, ma il volto occultato dall’ampio mantello, le dimensioni sovrumane del suo sembiante, ci fanno capire che si tratta semplicemente di una idea di protezione, bianca ed emanante energie positive: è essa stessa idea di salvezza per quel poco di umano ci è rimasto.
Qui interviene l'epica spaziale della musica. In principio fa presagire un lavoro suggestivo, con rimandi a una certa onda dolente, invece poi si cristallizza in una ripetizione monotona di un tema che smette presto di essere evocativo per farsi descrittivo quando, finalmente, il protagonista incontra la Grande Madre – dea o entità sovrumana salvifica. È importante questa reiterazione sonora: è il chiaro sintomo di una ossessione, di un’ansia descritta visivamente dall’incedere affannato del protagonista, il sonoro sottolinea e accompagna la narrazione per episodi su cui è strutturato l’impianto filmico. Proprio come nei games, si passa di livello in livello attraverso il passaggio dai portali.
Un’ultima considerazione va indirizzata al percorso per luoghi del personaggio dove incontra soltanto ruderi. Ruderi del suo passato personale, la casa, ruderi di interni dediti a produzioni dismesse da tempo immemore. Ruderi di chiese, ruderi di macchinari meccanici. È un percorso nella memoria. Memoria di un tempo in cui l’uomo dominava la Terra e ne era padrone. Memoria della propria identità simboleggiata dalla casa, le proprie radici culturali, etiche, ma soprattutto affettive, fino al riaffiorare di memorie produttive e operative: il macchinario dismesso che entrato in funzione ricorda al protagonista il suo ruolo nel mondo: è lui il suo costruttore. La salvazione pertanto giunge anche attraverso il rimembrare le proprie ascendenze identitarie. Le Torri di Novaya ci avvertono della necessità di rimemorare per fronteggiare ogni possibile reset ontologico, storico e simbolico, da parte di quella cultura della cancellazione che mira proprio a questo: alla dannazione dell’anima, dell’identità personale e territoriale. La memoria prelude alla teofania della Madre e cresce ad ogni passaggio di portale fino all’incontro definitivo con la propria salvazione.
Le Torri di Novaya non è soltanto un film distopico come molti altri, bensì si configura come avvertimento ultimo per una umanità sull’orlo di un precipizio economico. I portali sono livelli di consapevolezza raggiunti lungo il percorso verso la conservazione della memoria biologica: unica via verso la salvazione. Restate umani, restate spirituali, la Grande Dea Madre vi salverà dall’inferno totalitario del transumanesimo.